La protesi sottoretinica PRIMA è un dispositivo medico in grado di elicitare nelle persone non vedenti percezioni sensoriali assimilabili a quelle visive. Tra le diverse protesi retiniche progettate e realizzate ad oggi, PRIMA è quella che ha ottenuto i migliori risultati in termini di sicurezza ed efficacia, contribuendo in modo significativo all’evoluzione della visione artificiale. Questa branca della ricerca, che solo un paio di decenni fa richiamava alla mente immagini e pensieri legati alla fantascienza, coinvolge oggi competenze molto diverse tra loro, tutte finalizzate alla realizzazione di nuove metodiche in grado di sostituire o bypassare funzionalità indispensabili per la visione e che nei pazienti non vedenti sono difettose o mancanti.
Le protesi retiniche sostituiscono funzionalmente i fotorecettori, le cellule della retina che generano il segnale visivo, e sono quindi utili a quei pazienti che hanno perso questo tipo di cellule ma non gli elementi che trasmettono il segnale visivo al cervello (cellule bipolari, cellule ganglionari, nervo ottico e vie ottiche) o la funzionalità della corteccia visiva.
PRIMA è stata progettata in modo specifico per i pazienti affetti da degenerazione maculare legata all’età (comunemente nota come maculopatia) di tipo atrofico evoluta nella sua forma terminale, l’atrofia geografica (GA). La maculopatia atrofica è caratterizzata da una grave alterazione della retina esterna, che coinvolge inizialmente l’epitelio pigmentato retinico (RPE) e di conseguenza, in modo progressivo, i fotorecettori (coni e bastoncelli), che dipendono dall’RPE per gli scambi gassosi e metabolici. La maculopatia atrofica determina la perdita graduale della visione centrale e, nella sua forma terminale, ipovisione e cecità legale.
Nel mondo industrializzato, la maculopatia è la principale causa di perdita della visione centrale negli over 60, con più di 5 milioni di persone affette; questa patologia assume quindi una grandissima rilevanza sociale per incidenza e gravità. Sebbene il recupero visivo ottenuto con PRIMA sia da considerarsi ancora agli albori, si può già parlare di una vera e propria “terapia chirurgica” per questa grave forma di degenerazione maculare.
La protesi retinica PRIMA si presenta come un microchip di 2 mm di lato e 30 micron di spessore (meno di un terzo di un capello umano). Il microchip è costituito da 378 pixel di 100 micron di diametro e viene impiantato chirurgicamente sotto la retina, a diretto contatto con la superficie retinica esterna.
Una volta impiantata, PRIMA funziona di concerto con alcuni componenti esterni che, insieme al microchip, costituiscono il Sistema PRIMA: un paio di occhiali con videocamera e microproiettore integrati e un piccolo computer tascabile. Grazie al funzionamento wireless, il microchip non necessita di cavi di collegamento tra l’interno dell’occhio e i componenti esterni, consentendo una chirurgia d’impianto minimamente invasiva, eseguibile in anestesia locale – eventualmente associata a una lieve sedazione – in un paio d’ore.
Il funzionamento del Sistema PRIMA prevede la registrazione dello scenario che si presenta davanti al paziente mediante la telecamera integrata negli occhiali, l’elaborazione (semplificazione) in tempo reale delle immagini da parte del computer e l’invio del messaggio codificato – sotto forma di pattern di luce nel vicino infrarosso – verso la retina, attraverso il sistema di microproiezione integrato negli occhiali.
Gli impulsi luminosi che arrivano alla retina sono captati dal microchip e tradotti dalle minuscole celle fotovoltaiche (che sostituiscono funzionalmente i fotorecettori) in stimoli elettrici; questi ultimi sono trasmessi alla corteccia visiva tramite le cellule bipolari, le cellule ganglionari, il nervo ottico e le vie ottiche.
La stimolazione visiva che si ottiene grazie alla protesi sottoretinica PRIMA è piuttosto diversa da quella naturale e può essere descritta come la percezione di un insieme di puntini luminosi (fosfeni) prodotti dalla stimolazione della retina residua da parte delle celle fotovoltaiche che costituiscono il microchip. Il paziente deve quindi imparare a riconoscere questi “pattern” di fosfeni corrispondenti ai diversi oggetti osservati mediante una fase di riabilitazione visiva.
Anche se PRIMA è stata progettata per il recupero della visione centrale nei pazienti affetti da maculopatia atrofica evoluta in atrofia geografica, questo dispositivo potrebbe rivelarsi utile anche per i pazienti affetti da retinite pigmentosa e altre patologie degenerative della retina. L’ampliamento della platea di possibili utilizzatori apporterebbe un grande beneficio, sia in termini di innovazione terapeutica che di qualità di vita, a un grandissimo numero di persone.
L’applicazione su larga scala di PRIMA potrebbe portare inoltre a ulteriori evoluzioni della sua performance, in particolare un aumento dell’area di recupero visivo, in virtù della composizione modulare della protesi, e una migliore qualità (definizione) delle immagini, con diminuzione delle misure dei moduli e un maggior numero di stimoli elettrici a parità di superficie.
Dr. Jung Hee Levialdi Ghiron
Responsabile comunicazione scientifica Rome Vision Clinic